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Ritratti Italiani – Nicola Mancino racconta Guido Dorso

Nicola-Mancino

Avellino – 15 aprile 2011

Accogliendo l’invito che mi è stato rivolto dal Presidente dell’Istituzione Teatro Comunale Carlo Gesualdo e, consapevole di rivolgermi ad un pubblico particolarmente qualificato, al quale il personaggio Guido Dorso è già ben noto, ho pensato di articolare questo “Ritratto italiano” – come suggerito dal progetto che mi è stato presentato – con un occhio rivolto al passato, cioè al momento storico in cui si è sviluppata la vita e l’opera di Dorso, ed uno al presente, ai giorni nostri, nel tentativo, spero non arbitrario, di evidenziare l’attualità del pensiero di questo nostro grande concittadino.
Se l’operazione riuscirà sarà, credo, il modo migliore per rendere giustizia ad uno studioso, ad un politico, ad un polemista, ad un grande meridionalista cui la contemporaneità fu, all’epoca, avara di riconoscimenti, tanto da riservargli un destino “tragico in vita” e “non fortunato dopo la morte”, come ha scritto – e voi ben lo sapete – Manlio Rossi Doria nella citatissima prefazione alla “biografia politica” di Santi Fedele, della quale anche io mi sono avvalso. In effetti, alla precocità della maturazione intellettuale fece in Dorso tragico contrappasso la scarsità del tempo concessogli per dispiegarla: appena pochi anni prima del trionfo del fascismo – e furono gli anni del “Corriere dell’Irpinia”, della collaborazione a “La rivoluzione liberale” di Gobetti e della stesura del suo celebre “La rivoluzione meridionale” – e poi, dopo il lungo (oltre 15 anni) intermezzo dell'”esilio in patria”, altri pochi anni di impegno ancor più diretto in politica con il Partito d’Azione, il congresso di Cosenza (6 agosto 1944), il convegno di Bari del dicembre dello stesso anno, la pubblicazione del quotidiano “L’azione”, la raccolta dei suoi articoli nel volume “L’occasione storica”, la sfortunata partecipazione alle prime elezioni repubblicane il 2 giugno 1946.
Da queste e da altre letture delle opere del personaggio e sul personaggio, ricavo due argomenti che mi sembrano degni di attenzione ai fini dell’attualizzazione che mi sono proposto di operare:

1. la critica radicale e senza attenuanti cui Guido Dorso sottopone la vicenda risorgimentale e soprattutto la sua conclusione, descritta come una “conquista regia”, frutto – scrisse – del deleterio “compromesso istituzionale” della nostra storia, quello fra la monarchia sabauda e le classi dirigenti degli Stati preunitari, che nel Mezzogiorno degenerò presto nel peggiore trasformismo;
2. l’intuizione del sistema elettorale proporzionale quale strumento di partecipazione diretta delle masse popolari alla vita politica e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, leva necessaria per scardinare la “dittatura del Nord”, destinata a restare conquista “intangibile della rivoluzione italiana”.
In questa rivisitazione del personaggio incroceremo l’esperienza di Guido Dorso con quelle di Antonio Gramsci, Luigi Sturzo, Piero Gobetti; e la prospettiva storica collegata al presente ci consentirà di operare una singolare rivalutazione, in quanto la storia ci consegna dei personaggi che all’epoca furono definiti “perdenti”, mentre l’attualità ce li riconsegna non solo pienamente rivalutati (questo è già da tempo avvenuto), ma anche e soprattutto capaci di insegnare qualcosa a noi, uomini di oggi. E poiché oggi la storia corre più in fretta di sessanta o settanta anni fa, è possibile che anche i “perdenti” di oggi vincano al prossimo, vicino tornante.

Sul motivo per cui ho scelto il tema del Risorgimento come primo punto di questa rivisitazione di Guido Dorso non devo spendere molte parole. L’argomento è prevalente nelle riflessioni dell’Avellinese; e l’occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia mi ha portato già in diverse occasioni ad affrontare la problematica dell’unità del nostro Paese e le polemiche ad essa collegate. Cercherò, dunque, di non ripetermi, aiutato dalle polemiche francamente demolitorie del Nostro.
La critica di Guido Dorso sul Risorgimento, o forse bisognerebbe dire “contro” il Risorgimento (“conquista regia”, appunto), occupa molto spazio nella sua attività pubblicistica ed editoriale. Fu una polemica drastica, netta e impietosa, e fa, in lui, un tutt’uno con l’appello alla “rivoluzione meridionale”, alla condanna dei partiti storici, alla creazione di una nuova classe dirigente che si faccia protagonista del riscatto politico e sociale del Sud. “La caratteristica essenziale del nostro Risorgimento – cito sempre dalla biografia di Santi Fedele – è costituita dal dissolvimento di tutte le correnti ideali, che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese”. Nato come “incendio romantico”, il disegno politico risorgimentale “affogò nello stretto circolo di conservazione della monarchia piemontese”, e si ridusse, grazie a Cavour, ad una “rivoluzione incompiuta”, nella quale si affievolirono ideali rivoluzionari o semplicemente democratici. Il Mezzogiorno fu il terreno di conquista del “compromesso istituzionale”, e il trasformismo delle classi dirigenti ne fu lo strumento privilegiato, attraverso il quale si esprimevano le clientele politiche che facevano del deputato meridionale non già il rappresentante del territorio ma piuttosto l’ “ascaro di ogni gabinetto”, come scriveva già nel 1919 su “L’Irpinia democratica”.

Che dire di fronte ad una critica così demolitrice? Dirò che il compromesso del 1861 fu semplicemente l’unico possibile. Senza di esso non è che l’Italia sarebbe stata diversa o migliore; semplicemente non sarebbe stata. Fu certamente, il Risorgimento e la sua conclusione, il frutto dell’incontro tra volontà dinastica e tradizioni storiche dei Savoia e moto democratico insurrezionale (Garibaldi, piuttosto che Mazzini, oltre alla componente intellettuale cattolica, che non mancò), ma perché l’opera si compisse fu necessaria anche la mediazione politica di Cavour, che impose la soluzione unitaria alle potenze europee, inizialmente indifferenti se non contrarie, contro gli Stati assolutistici che si spartivano la Penisola e in presenza di ceti popolari in larga parte ostili o riluttanti, come fu dimostrato, poi, dal brigantaggio.
Ricordo volentieri le parole del Capo dello Stato, pronunciate proprio lo scorso 17 marzo: “L’Unità non potè compiersi che scontando i limiti di fondo come l’assenza delle masse contadine – cioè della grande maggioranza, allora, della popolazione – dalla vita pubblica, e dunque scontando il peso di una questione sociale potenzialmente esplosiva. L’Unità non potè compiersi che sotto l’egida dello Stato più avanzato, già caratterizzato in senso liberale (ricordo che in Piemonte lo Statuto Albertino non fu mai abrogato, neppure dopo il fallimento del ‘48), più aperto e accogliente verso la causa italiana e i suoi combattenti che vi fosse nella penisola, e cioè sotto l’egida della dinastia sabauda e della classe politica moderata del Piemonte, impersonata da Cavour. Fu quella la condizione obbiettiva riconosciuta, con generoso realismo, da Garibaldi, pur democratico e repubblicano, col suo ‘Italia e Vittorio Emanuele “. È noto che l’ironia, o meglio la tragica beffa della storia impedì poi a Guido Dorso, tornato da un “esilio in patria” che durò dal 1927 al 1943 (ma furono anni di studio e di preparazione, anche se sotto il rigido controllo della polizia fascista), di partecipare alla nascita del nuovo, e diverso, “compromesso” istituzionale italiano: la Costituente e la Costituzione. La Costituzione, ricordo, ha segnato l’avvento di una democrazia diversa da quella elitaria del periodo prefascista, di cui Dorso impetuosamente denunciò i limiti: una democrazia fondata sul riconoscimento di eguali diritti e pari dignità per tutti, uomini e donne, quali prima non si erano mai dati nel nostro Paese; un sistema di garanzie, di diritti e doveri dei cittadini che ha poi trovato ampio riscontro nella vita politica e civile; un principio di unità nazionale e di solidarietà che tende a porre condizioni di sviluppo economico eguali per tutte le regioni del Paese.
Ora, noi non sappiamo come si sarebbe atteggiato Guido Dorso di fronte all’elaborazione della Carta; sappiamo, però, che l’attesa in lui era grande. “Il 2 giugno – scrive, riferendosi all’appuntamento elettorale del 1946, quello per il referendum istituzionale e la Costituente, cui si presentava capeggiando la lista dell’Alleanza repubblicana – non cadrà un governo ma un regime. Il 2 giugno, dopo 85 anni, cadrà il compromesso istituzionale, su cui il genio di Cavour riuscì a costruire l’Italia unita e indipendente. Cadrà, dunque, uno strumento politico che si è ormai consumato, e dovrà essere rimpiazzato da un altro strumento politico, che sarà di natura diversa da quello che ha retto l’Italia in regime monarchico e fino alla caduta della monarchia”. C’era, dunque, anche in lui, l’attesa del nuovo!

Dorso si presentò alle elezioni con la sua formazione politica, che prefigurava il costituendo Partito meridionale d’Azione, essendosi dimesso dal partito d’Azione, di cui era stato l’anima – ricordo la sua partecipazione al congresso di Cosenza con la “Relazione sulla questione meridionale” – ma di cui aveva poi denunciato lo scarso impegno proprio sui temi che a lui stavano a cuore. Ma c’era anche il limite di un carente rapporto con le masse popolari, evidenziato già nei primi articoli pubblicati sul settimanale “L’Irpinia democratica”, fondato nell’agosto del 1919, dopo la partecipazione alla Grande Guerra e un breve periodo di collaborazioni giornalistiche varie, quasi alla ricerca di un terreno più consistente e di un superamento stabile del rapporto clientelare fra eletti ed elettori, che solo la formazione di partiti politici ben strutturati e articolati sul territorio avrebbe potuto garantire. Anche la geografia ci metteva del suo: “Siamo un popolo confinato fuori del mondo” – aveva scritto in quel torno di tempo – , che vede solo da lontano e di riflesso “i flussi e i riflussi economici, lontanissimi gli echi della vita spirituale”. Detto questo, occorre aggiungere che della lezione di Guido Dorso si può ancora oggi recuperare, valorizzandolo, l’anelito ad evitare un nuovo compromesso al ribasso, tentazione sempre presente nella storia italiana. Ai nostri giorni, la crisi della classe dirigente non è più solo un problema meridionale, ma è un problema insoluto dell’intero Paese, e la crisi delle ideologie, che ha trascinato con sé anche gli ideali sottostanti, aggrava ancor più la situazione, cosicché si rende ancor più attuale la denuncia del trasformismo e dell’opportunismo.
Cosa resta, dunque, di Dorso? Certamente l’appello al riscatto, alla rivolta morale contro il malcostume politico e il deficit di rappresentanza. E, direi oggi ancor più che ai tempi di Dorso, dobbiamo puntare sulla difesa della legalità e della moralità, oltre che sulla lotta contro la criminalità organizzata, che è una palla al piede dello sviluppo delle regioni meridionali, e non solo. Voglio cogliere questa occasione per rivendicare con limpida coscienza il mio impegno di sempre come parlamentare prima, poi come Ministro dell’Interno e quindi da Presidente del Senato e in ogni altro incarico ricoperto, ripeto, il mio impegno in difesa delle istituzioni democratiche e contro le mafie.

E veniamo al secondo punto che mi sono proposto di approfondire, quello della intuizione dorsiana del sistema proporzionale come strumento per la rottura del rapporto clientelare che è alla base del sottosviluppo politico del Mezzogiorno. In uno scritto sull'”Irpinia democratica” (24 agosto 1919), parla del sistema uninominale appena abolito come di una “pozzanghera” che restringeva la lotta politica “entro un angusto cerchio…spogliandola sempre dei suoi caratteri di nobiltà per farne l’urto di due uomini e di due fazioni” nel quale “si spegnevano le differenze ideologiche e pratiche dei partiti politici”. Certo, Dorso non si illudeva che tutto sarebbe cambiato con il collegio plurinominale e lo scrutinio di lista, ma certamente riteneva che l’ampliamento della “sfera di azione di ogni candidato” avrebbe affrancato gli elettori dal rapporto clientelare con gli eletti e introdotto anche il Mezzogiorno in un circuito virtuoso di dialettica politica e ideale.
È su questo punto che Dorso incrocia il fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo, al quale aveva già riconosciuto il merito di un’intuizione politica di primissimo piano con la critica al fascismo (è il discorso di Sturzo al congresso del PPI nell’aprile 1923) e ancor più, un pò prima, con la demolizione del sistema uninominale, base di legittimazione dei potentati locali, soprattutto nel Mezzogiorno.
E proprio sul sistema elettorale si forma in quegli anni un insolito e forse imprevedibile triangolo fra Dorso, Sturzo e Piero Gobetti. Siamo nel febbraio del 1925, appena superata la crisi del delitto Matteotti. Sturzo è già esule a Londra, Dorso ad Avellino si sta progressivamente ritirando dalla vita pubblica; Piero Gobetti a Torino prepara un numero quasi monografico della “Rivoluzione liberale” sul tema della proporzionale, che la legge Acerbo aveva appena soppresso. Vi scrivono tra gli altri, Sturzo e Dorso. Nel suo contributo, intitolato “La proporzionale risorgerà”, Sturzo polemizza con la “vecchia tradizione italiana liberaldemocratica” che è “in gran parte dei suoi superstiti, sia di destra che di sinistra, conservatrice”, e “mal tollerò il suffragio universale dato da Giolitti in una giornata di malumore”. Aggiunge: “L’elemento reazionario nostrano (pentito del fallo) avrebbe voluto colpire il suffragio universale; ma purtroppo si trovava di fronte ad un pericolo – la sensibilità delle masse, che ormai hanno acquisito questo loro diritto – e allora la proporzionale – la quale incanala le forze democratiche e valorizza il suffragio universale – ne ha subito tutte le conseguenze”.
Secondo il prete di Caltagirone, suffragio universale e proporzionale si richiamano a vicenda. “Non è possibile, dato il suffragio universale, che la massa di un popolo non cerchi di affrancare la propria autonomia da soggezioni politiche ed economiche, e avere una propria personale espressione. Sia essa l’alternativa dei due partiti; o la rappresentanza proporzionale dei molti partiti; risponde più o meno parzialmente alla necessità di organizzare il suffragio universale. Però è ben da notare che, se è superato lo stadio dei due partiti, non è più possibile vi si possa tornare a volontà o coattivamente; così come è innaturale che, trovata la via della proporzionale, vi si rinunzi per cadere in quella delle coalizioni”.
Conclude ottimista: “Coloro che oggi hanno voluto seppellire la proporzionale la invocheranno a loro salvezza”.

Guido Dorso incentra il suo scritto sul tema Collegio uninominale tentativo di ritorno al trasformismo Una critica ancor più radicale di quella sturziana. Il collegio uninominale – vi si legge – è un “tentativo di ritorno trasformistico”, in quanto si propone, da parte di Mussolini, “di riprendere nelle sue mani il meccanismo infranto del personalismo meridionale, attraverso un’elezione a collegio uninominale, che rappresenti un sistema meno sovversivo, e gli assicuri oltre che i voti dei deputati meridionali anche l’adesione delle popolazioni”.
“Fino a quando il Mezzogiorno – prosegue – continuerà a rimanere assente dalla lotta politica e sarà impossibile adoperare le sue forze per rompere il complesso giuoco dei partiti storici, tutti i sistemi elettorali saranno buoni a mantenere la dittatura del nord, ed un eventuale ritorno alla proporzionale non sarà che una nuova irrisione aggiunta alle precedenti”. Sullo stesso numero della “Rivoluzione liberale”, Gobetti definiva il collegio uninominale una forma politica “feudale”, facilmente portata a degenerare “in una pratica di politicismo parassitario”, laddove “la rappresentanza proporzionale parve segnare giustamente in Italia il periodo in cui la vita unitaria si sarebbe imposta alfine, dopo il tormento della guerra e della ascensione socialista, con una fisionomia di serietà etica e politica”.

Da allora, si può dire, il tema del rapporto fra rappresentati e rappresentanti, e quindi del sistema elettorale, è diventato cruciale per la democrazia italiana, più o meno nei termini in cui Dorso, Sturzo e Gobetti lo descrivono (non nel ventennio fascista, naturalmente).
La cosiddetta prima Repubblica lo risolse adottando un sistema proporzionale che comunque premiava i partiti più grossi; secondo molti studiosi, tuttavia, il proporzionale, pur non previsto dalla Costituzione, è il sistema elettorale più congeniale alla nostra Carta. Poi, alla crisi dei partiti di massa degli anni 1992-93 si credette di ovviare con un sistema misto, maggioritario a turno unico per l’assegnazione del 75% dei seggi in palio, con un recupero proporzionale per il restante 25 %. Dal 2005 si vota con un sistema che è stato presentato come un ritorno al proporzionale, ma prevede con il premio al partito o alla coalizione di partiti che conseguono il primo posto, una forte correzione maggioritaria con la esclusione delle preferenze ed esclude le preferenze. Come se ne esce? Riprendendo il discorso dei rapporti di Dorso con don Sturzo, bisogna dire che esso procedette a fasi alterne. Erede della tradizione risorgimentale democratica e massonica, Dorso ironizza sull’ipotesi (che però accoglie) che siano proprio quelli che oggi definiamo cattolici democratici a difendere la libertà, la democrazia, il buon governo amministrativo, il decentramento. S’illude che la critica sturziana al fascismo, al socialismo statalista e al protezionismo possa minare le basi dello Stato risorgimentale e, così, contribuire alla “rivoluzione” elitaria che egli – Dorso – intendeva promuovere. Al contrario, l’eredità popolare e sturziana era, invece, destinata a fecondare un profondo rinnovamento dello Stato, ma soprattutto a sanare la frattura fra popolo e istituzioni, ad elevare il livello del compromesso costituzionale.
Sturzo ricambiò le attenzioni di Dorso apprezzandone l’autonomismo, la polemica contro il trasformismo della classe dirigente, la capacità di sintesi. Più in generale, secondo Sturzo, Guido Dorso era riuscito a collocare la questione meridionale nell’ambito del problema politico generale dell’Italia, come una grande questione democratica nazionale.
In questi termini si esprime anche Antonio Gramsci, per il quale, tuttavia, il problema principale del Mezzogiorno è il suo storico asservimento agli interessi del Nord. È celebre il discorso alla Camera, il 16 maggio 1925, in cui Gramsci, più volte interrotto anche da Mussolini, rivendica con orgoglio la sua meridionalità e denuncia una continuità di comportamenti oppressivi, da Giolitti al fascismo: “In Italia il capitalismo si è potuto affermare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine specialmente nel Sud”, usando i mazzieri per controllare gli elettori e prelevando imposte “che non restituisce in nessun modo né con servizi di nessun genere”.

In questa ottica, Gramsci riconosce a Dorso il merito di aver collegato l’esperienza dei contadini del Sud a quella dei proletari del Nord ma, inquadrando tutto il suo ragionamento nella prospettiva di una frattura rivoluzionaria, frutto dell’alleanza di classe fra operai e contadini, si posiziona su un piano diverso da quello dell’Avellinese.
Il richiamo di Dorso al popolo come elemento essenziale per ogni processo di mutamenti istituzionali si colloca su un piano diverso da quello della lotta di classe, e non contraddice il convincimento che, per la resurrezione delle regioni meridionali, sarebbero bastati “cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea”. Dorso pensava, infatti, ad una minoranza organizzata, un’avanguardia capace di guidare il Mezzogiorno d’Italia nel circuito della modernità; e a questa avanguardia intendeva fornire lo strumento del partito che aveva fondato.
La sorte non gli consentì di proseguire sulla strada tracciata. Altri tentarono, con alterne fortune. L’impegno meridionalista non è certamente finito con Guido Dorso, e qualche successo è stato pure colto. Ma quello della classe dirigente rimane un problema insoluto non solo del Mezzogiorno, ma della società italiana. Anzi, dopo gli anni novanta con la caduta delle ideologie e, ai nostri giorni, con il ritorno prepotente del trasformismo e del personalismo, il richiamo intransigente di Dorso ad esprimere nuove energie politiche non compromesse con il potere delle classi dominanti, mantiene tutta la sua forza evocatrice. È legittimo chiedersi che cosa avrebbe detto e scritto Dorso dello sradicamento delle culture, del tradimento delle appartenenze, delle inarrestabili frantumazioni che oggi sono all’ordine del giorno. E se oggi nessuno più si meraviglia della disinvoltura dei passaggi di campo, è segno che i tempi sono davvero cambiati, ma l’opportunismo politico è rimasto tale e quale, se non peggiorato, come via insensata alla sopravvivenza personale o di gruppo.
• presidente emerito del Senato della Repubblica
• componente comitato scientifico – culturale Associazione Dorso